Una donna finisce sotto processo con l’accusa di coltivazione e traffico illecito di sostanze stupefacenti, ma le analisi dimostrano che le piante in questione appartengono alla categoria della cannabis light. Non contengono principio attivo o, se presente oltre i limiti di legge, ciò non è imputabile alla coltivatrice, che viene quindi assolta.
Solo alcuni fiori hanno mostrato livelli di THC leggermente superiori al consentito, ma un esperto chiarisce: “Può succedere con semi acquistati sul mercato, senza che ciò dipenda dalla volontà del coltivatore”.
Le forze dell’ordine erano intervenute in un terreno di sua proprietà, dove la donna coltivava 193 piante di canapa e conservava marijuana in 3 confezioni. Tuttavia, il tribunale ha stabilito che non vi era dolo, poiché la donna aveva regolarmente segnalato alle autorità la sua attività di coltivazione di Cannabis Sativa Light. Inoltre, la perizia tecnica ha confermato che le piante provenivano da sementi destinati alla produzione di fibra, sebbene alcune abbiano sviluppato una concentrazione di THC leggermente superiore al limite di legge.
Questa variazione, ha spiegato l’esperto, può verificarsi durante la maturazione delle piante a causa di diversi fattori ambientali e genetici, senza che sia possibile prevederlo al momento dell’acquisto dei semi né rilevarlo a occhio nudo prima delle analisi chimiche.
Il caso evidenzia ancora una volta l’incertezza normativa che avvolge il settore della cannabis light in Italia, lasciando spazio a interpretazioni soggettive da parte di autorità e magistrati. Per i circa 30.000 lavoratori del settore, il rischio di essere coinvolti in procedimenti giudiziari rimane una realtà quotidiana, nonostante operino in un ambito regolamentato.