Editoriale

Il processo EasyJoint alle battute finali: le dichiarazioni di Marola

Luca Marola, pioniere della cannabis light in Italia con il marchio “easyjoint”, dopo anni di processo, ha parlato per la prima volta in aula a Parma. (Audio in fondo all’articolo)

L’ultima udienza si terrà il 29 maggio, la fine del processo piú grande nel nostro paese in materia di cannab1s light. Le sensazioni appaiono positive, anche se ad oggi il nostro sistema giudiziario, a riguardo, non smette mai di sorprenderci, purtroppo negativamente. Un processo che è apparso fin da subito simbolo dell’attacco dello Stato nei confronti del settore piú discusso degli ultimi anni. 

Marola ha lasciato una lunga dichiarazione in aula, partendo fin dagli albori del settore e arrivando alla fine della storia della sua azienda. Dichiarazioni che invitiamo tutti a prenderne visione, ma che soprattutto dovrebbero essere lette con molta attenzione dalle nostre istituzioni.

LE DICHIARAZIONI DI LUCA MAROLA:

Ormai alle ultime battute del nostro processo, sento l’esigenza di aggiungere anche la mia voce alle tante ascoltate finora. Ho ascoltato, e riascoltato grazie a Radio Radicale, i tanti testi e periti che si sono susseguiti in aula, ho letto tutte le 7000 pagine dell’inchiesta, tutte le trascrizioni delle udienze, ma ho parlato poco e, prima della conclusione, penso sia doveroso, anche per rispetto verso il processo, intervenire.

Tra i tanti giornalisti che hanno scritto dell’indagine e di questo processo mi hanno colpito, e faccio mie, le parole di Michele Serra su Repubblica nell’ottobre del 2021, alla vigilia della prima udienza: “Detenzione e spaccio di stupefacenti: per questi reati verrà processato a Parma il pioniere della cannabis light in Italia. Degli effetti dei cannabinoidi sulla salute si discute da ben prima che la marijuana entrasse tra i consumi quotidiani. Ma sarebbe più urgente discutere, qui e ora, degli effetti devastanti di una legislazione fumosa, così fumosa che in alcune zone d’Italia è reato ciò che in altre è legale, a seconda di come uomini di legge leggono e interpretano le stesse carte. Questo significa che migliaia di contadini hanno coltivato, e centinaia di distributori e negozianti hanno messo in commercio, un prodotto che ritenevano legale; scoprendo solo dopo il raccolto che non lo era; oppure forse sì e forse no. Significa preparare il terreno e seminare una buona pianta, vederla crescere contando su un bel raccolto, e dopo il taglio vederselo sequestrare perché il seme legale è diventato fiore illegale. Niente fa più rabbia di un raccolto che va a male, e non per la trascuratezza di chi lo ha lavorato, o per un rovescio del clima, o per un parassita. Ma perché l’interpretazione di una legge oscilla, come un vento illeggibile, sopra il campo. La canapa è anche una questione contadina, è una fatica ripagata oppure cancellata da un avviso di garanzia. Di fronte a questa assurda altalena bisogna che il processo di Parma serva a fare chiarezza. Sarebbe, tra l’altro, quasi la chiusura di un cerchio: l’Emilia ebbe una fiorente tradizione nella coltivazione della canapa “comune”, la sativa, cugina della indica, oggi pregiudicata, domani chissà”.

“Fare chiarezza”: è quel che chiedo ai legislatori dal primo momento, dal maggio del 2017, quando lanciai, per primo in Italia, il commercio del fiore della canapa agricola. Fui uno dei pochi a seguire l’iter parlamentare della legge sulla filiera della canapa perché in quegli anni curavo una trasmissione radiofonica che settimanalmente raccontava tutto quello che accadeva, in Italia e nel mondo, intorno alla cannabis. Fino ad allora, la minuscola filiera italiana della canapa si poggiava esclusivamente su una circolare interpretativa del Ministero dell’Interno. Era unanimemente riconosciuta l’urgenza di una legge chiara, capace di dare certezza nel diritto e magari respiro ad una filiera allora solo potenziale.

Mi accorsi che dal testo definitivo adottato nella Commissione Agricoltura del Senato erano sparite le infiorescenze e gli estratti presenti invece dal testo licenziato dalla Camera dei Deputati. Dai resoconti stenografici e dall’interlocuzione con numerosi senatori di quella commissione venni a sapere che l’allora presidente, Roberto Formigoni, per garantirne l’approvazione preferiva approvarla in commissione anziché portarla in Parlamento dove, a suo dire, e con ragione, si sarebbe prestata a strumentalizzazioni politiche e difficilmente avrebbe visto la luce. Perché si potesse approvare la legge in commissione, in sede deliberante, quindi, serviva l’unanimità dei componenti e per raggiungerla vennero espunte le parti su cui non vi era un consenso condiviso: da una parte infiorescenze ed estratti, dall’altra le norme più stringenti sulla tracciabilità e commerciabilità dei semi di cannabis. Così è nata la legge 242 nel 2016. Una legge nata monca la cui mutilazione rende incoerente l’obiettivo dichiarato nel primo articolo: la promozione e il sostegno dell’intera filiera della canapa agricola. Come si può, mi chiedevo allora, sostenere lo sviluppo della filiera senza nemmeno menzionare i due prodotti che sono il motore del mercato globale della canapa oltre che i più remunerativi? Qualunque indagine economica ha successivamente dimostrato questa realtà: in Italia, senza fiore ed estratti, la filiera della canapa non esisterebbe. Poche erano prima e poche restano ora le aziende che producono esclusivamente mattoni, bioplastica, biocombustibile, tessuti. La legge italiana senza il fiore non avrebbe completato la filiera, non avrebbe portato investimenti significativi né tantomeno generato ricchezza, a tutto vantaggio delle filiere degli altri paesi europei già molto competitive. All’inizio il mio era solo un dubbio, ma negli anni a seguire è diventato evidente a tutti gli operatori agricoli, le associazioni di categoria, gli analisti economici e i funzionari dei ministeri competenti.

Per la mancanza di chiarezza sulla sorte dei fiori che la pianta naturalmente produce proprio nel periodo in cui raggiunge la piena maturità e quindi utilità industriale di ogni sua parte, nonché per le difficoltà interpretative cui fatalmente si sarebbe andati incontro, decisi di dare vita a un’iniziativa che, prima di essere imprenditoriale, fosse un invito alla politica a tornare sui propri passi, notare l’errore e completare la legge. Così nasce Easyjoint. Vendere il fiore, che comunque si vendeva anche prima del 2016 nel disinteresse generale, ma con un vestito migliore, più accattivante dal punto di vista linguistico e di packaging, capace di attirare fin da subito l’attenzione del pubblico e soprattutto dei media.

I miei studi universitari a Giurisprudenza e la passione per la Filosofia del Diritto e il garantismo penale, grazie allo studio dei manuali di Luigi Ferrajoli, cristallizzarono in me la certezza che la compravendita di fiori di canapa, se non esplicitamente vietata da una legge è permessa o almeno non può essere considerata penalmente rilevante. E a questo caposaldo del garantismo penale, ciò che non è espressamente vietato, è permesso, nonostante la lettura delle circa 7000 pagine dell’inchiesta e delle tante udienze a cui ho assistito, continuo pervicacemente a credere.

In poco tempo, oltre alla mia azienda pioniera nella commercializzazione del fiore è rinato in Italia un intero settore legato alla canapa. Tradotto in numeri certificati da Coldiretti si parla oggi di circa 4mila ettari coltivati per circa 3 mila imprese agricole e un migliaio di negozi specializzati con un centinaio di grossisti, per un fatturato complessivo di 500 milioni di euro l’anno. Di cui 150 rigirati allo Stato sotto forma di tasse. Questo ha creato la mia iniziativa. E 13.000 posti di lavoro, soprattutto giovani. E ne vado assolutamente orgoglioso.

Più che occuparmi dell’aspetto commerciale, utilizzavo le mie risorse intellettuali ed economiche per fornire elementi utili al decisore: l’utilizzo di packaging compatibile e certificato per l’alimentare e la cosmetica per suggerirne l’assoggettamento del fiore, potendo applicare quindi le regole più stringenti circa la salubrità del prodotto a cui noi, comunque e senza nessuna legge ad imporcelo, di fatto già aderivamo; l’aver commissionato a professionisti un piano HACCP da seguire ed una catena di fornitura e segregazione composta da analisi approfondite, in entrata e in uscita, non solo sui cannabinoidi ma anche su contaminanti ed infestanti; isolamento dei campioni provenienti dalle aziende agricole fin quando non arrivavano le nostre controanalisi, tracciamento “dal seme al barattolo” per avere il controllo assoluto su tutta la filiera fino all’acquirente al dettaglio, sigilli di garanzia su ogni singola confezione… Un lavoro enorme e molto dispendioso ma ritenuto da me necessario perché oltre a commerciante all’ingrosso ero di fatto il portavoce dell’immaginario dialogo con le istituzioni nel suggerire soluzioni da applicare a un fenomeno che, oggettivamente, ci era scoppiato in mano. A tutti.

E poi ancora, studiare per ripetere il percorso virtuoso delle aziende di agricoltura biologica dove all’inizio, in assenza di una legge specifica, si dotarono di un codice interno di autodisciplina. Regolamento che, in quanto fonte consuetudinaria, venne poi assorbito dalla legge quando, anni dopo, il Parlamento normò il settore. Su questo fronte riunii i rappresentanti delle principali associazioni agricole della canapa insieme a tecnici specializzati affinché, insieme, elaborassero un codice di autodisciplina per la produzione del fiore di canapa. Il risultato venne presentato nel febbraio 2018 alla Camera dei Deputati e, qualche mese dopo, all’interno della fiera più importante del settore, tutte le associazioni agricole lo sottoscrissero pubblicamente. Ed è agli atti del processo.

A inizio 2018, come conclusione di questo percorso di dialogo, mi rivolsi ai parlamentari con un dossier e terminavo la presentazione con queste parole: “La forzatura attraverso la quale EasyJoint decise di iniziare la commercializzazione dei fiori di canapa ha avuto l’effetto di porre all’attenzione delle istituzioni l’imperfezione contenuta nella nuova legge a sostegno della sua filiera. Con la nascita del progetto EasyJoint abbiamo voluto dimostrare come una parte importante di pianta, circa il 30% sul totale, ignorata dalla normativa, possa diventare la porzione in grado di sostenere economicamente l’intera filiera, generare risorse, occupazione, ammodernamento della filiera stessa.

Si è creato un fenomeno virtuoso, a beneficio esclusivo delle aziende italiane e dell’indotto, che non ha paragoni nella storia dell’agricoltura italiana e che ha bisogno di essere conosciuto, riconosciuto e regolamentato. [..] Sta ora alle istituzioni cogliere quanto da noi messo in evidenza e generato. La “missione” di EasyJoint dovrebbe terminare qui: con la elaborazione e consegna di questo dossier e l’auspicio che quanto orchestrato finora, rischiando e accettando di subirne le conseguenze, non venga interpretato come una provocazione fine a se stessa ma come un appello, un sostegno alle istituzioni affinché trasformino una buona legge in una legge perfetta e realmente utile al sostegno e alla promozione della filiera della gloriosa canapa italiana attraverso la regolamentazione della produzione e commercializzazione delle infiorescenze”.

Mettere le istituzioni davanti a questa realtà mi sembrava un modo costruttivo per segnalare le lacune legislative e questa strategia diede pure i primi frutti, le istituzioni risposero! Una sola volta, nel maggio del 2018, con una circolare, il MIPAAF ritenne opportuno intervenire sulla materia per fornire alcuni chiarimenti sull’applicazione della legge in questione.

La circolare, prendendo evidentemente atto del fenomeno, sancisce la legittimità delle infiorescenze precisando come “Con specifico riguardo alle infiorescenze della canapa, si precisa che queste, pur non essendo citate espressamente dalla legge n. 242 del 2016 né tra le finalità della coltura né tra i suoi possibili usi, rientrano nell’ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo, purché tali prodotti derivino da una delle varietà ammesse, iscritte nel Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, il cui contenuto complessivo di THC della coltivazione non superi i livelli stabiliti dalla normativa, e sempre che il prodotto non contenga sostanze dichiarate dannose per la salute”. Che la legittimità del fiore sia un dato di fatto, acquisito ed introiettato da tutti tranne che a Parma, lo si desume dal fatto che ancora oggi, se si apre il sito del MIPAAF e si accede alla sottocategoria “canapa”, tra le fonti normative, oltre alla legge in questione, appare ancora la circolare summenzionata.

Solo a Parma, quindi, potrebbe ripresentarsi il paradosso per cui un neofita che voglia fare impresa con la canapa e che quindi voglia informarsi non solo attraverso articoli stampa fuorvianti in un senso o nell’altro ma dando importanza alle fonti, entri nel sito del Ministero, legga il testo di legge e il pdf sottostante, che è questa circolare, apra la sua attività per produrre infiorescenze in assoluta serenità, le produca, si metta a commercializzarle direttamente o attraverso grossisti e per questo si trovi i Carabinieri in casa alle 6 del mattino. E non ci si nasconda dietro al fatto che, essendo agricoltore, allora è protetto dalla legge anche qualora se ne applicasse l’interpretazione più restrittiva, reazionaria e punizionista! Un agricoltore, qualunque sia il suo settore merceologico, produce beni per la rivendita e quindi esisteranno grossisti, come ero io per il fiore di canapa, dettaglianti e, si spera per lui, acquirenti. Non produce per fini contemplativi ma per fini commerciali! Perché agricoltura senza commercio è solo giardinaggio.

A questo punto già sento arrivare l’obiezione “Ma questo è successo prima della sentenza delle Sezioni Unite…”. La sentenza delle sezioni unite della Corte di Cassazione non fa adeguata chiarezza; non è lo spartiacque su un prima tollerato perché confuso e un dopo di divieto chiaro e cristallino. La decisione della suprema corte si conclude con un sibillino “salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante, secondo il principio di offensività». E noi sappiamo che la mia canapa ha proprio queste caratteristiche, l’hanno dichiarato in quest’aula i miei clienti chiamati a testimoniare e tutti hanno confermato che l’effetto era quello di una blanda camomilla, al massimo. Nessuno ha mai cercato il cosiddetto sballo col canapone. Per quello c’è il mercato nero ad ogni ora, ad ogni angolo, in ogni città.

Che la sentenza in questione sia tutt’altro che chiarificatrice l’ho creduto leggendo la rassegna stampa dei giorni successivi alla pubblicazione delle motivazioni in cui già dai titoli si descrive la sentenza come un’occasione persa per fare chiarezza. “Canapa, la Cassazione opta per l’ambiguità” il 31 luglio 2019, “Cannabis light, legge oscura” il 12 luglio, “Il caos rimane” 11 luglio, “Tribunali, sequestri e caos normativo: così l’Italia mette in crisi i cannabis shop” 29 luglio, “La sentenza della Cassazione non chiarisce, ma il clima proibizionista si fa sentire” nello stesso giorno. Bene, io non sono né un procuratore, tantomeno capo, né un magistrato e leggendo titoli ed articoli come questi di certo non maturo la cristallina convinzione che il fiore di canapa sia diventato, di botto, illegale.

D’altra parte, cercando opinioni più approfondite di quelle dei titolisti di quotidiani, mi sono imbattuto nell’analisi delle motivazioni della sentenza elaborata da Riccardo De Vito, magistrato e allora presidente di Magistratura Democratica. Scrive infatti De Vito il 31 luglio “La decisione delle Sezioni Unite sulla cosiddetta cannabis light sfugge in parte al suo compito nomofilattico, ossia a quel dovere di fare chiarezza nelle idee del diritto e nelle cose del mondo. Le severe certezze che emergono dalle motivazioni sono accompagnate da nodi problematici che spetterà al giudice (o al legislatore) sciogliere”. E poi conclude: “Non vi è dubbio che la sentenza metta a nudo le ipocrisie di una legge che, nel promuovere la filiera agroindustriale della canapa con contenuti di THC irrilevanti, ha colpevolmente omesso di disciplinare le conseguenze della vendita dei derivati. Tuttavia, nelle maglie di un ragionamento giuridico rigoroso, si percepisce anche una certa coloritura ideologica. La scelta di ritenere criminalizzata la vendita dei derivati con tasso di THC inferiore allo 0,6%, salvo che siano privi di “concreta efficacia drogante”, non permette di uscire dalle secche di un paradosso che dovrà essere sciolto di volta in volta al banco del giudice: vietato sequestrare le piante lecite, ma possibile sequestrare i derivati e perquisire e arrestare chi li vende. I recenti sequestri di Parma stanno lì a dimostrare che occorrerà attendere un processo per capire cosa è lecito e cosa no”. 

Se non vi è unanimità di vedute tra magistrati e tecnici del diritto, e prova ne sono le valanghe di decisioni di non luogo a procedere di Giudici delle udienze preliminari e non solo da allora ad oggi, come posso io, privato cittadino con livelli di conoscenza giuridica molto elementari, maturare la convinzione che per la mia azienda sia stato sancito il “game over”? Anche il Procuratore capo di Bologna, dott. Amato, nella circolare interna protocollata il 17 luglio 2019 segnalava le stesse problematiche interpretative ed applicative. Non la cito ulteriormente perché anche questa, mi pare, sia stata messa agli atti. Se è stato difficile per me addentrarmi nel dibattito tra tecnici del diritto sulla rilevanza penale o meno, mi è stato sufficiente, per farmi un’idea, passeggiare a quel tempo per le vie di una qualunque città italiana, passeggiarvi ancora nel 2020 quando mi fu inibito proseguire l’attività, ma anche nel 2022 quando iniziammo il processo, e nel 2024 quando Lei, signora Giudice, è subentrata al dott. Gatto, per trovare negozi di miei colleghi aperti, distributori automatici in funzione, cartelloni pubblicitari e spot online, grossisti attivi. Perché negozi e grossisti hanno continuato a lavorare e continuano a lavorare senza soluzione di continuità dal giorno della sentenza di Cassazione ad oggi compreso. Strani noi o strano tutto il resto d’Italia?

Mi si imputa di avere avuto un magazzino grosso grosso, e quindi milioni di millanta di miliardi di dosi droganti desunte grazie ad operazioni logico matematiche che è un eufemismo definire surreali. Ero un grossista: acquistavo da aziende florovivaistiche italiane bancali di canapa di varietà presenti nel catalogo europeo delle piante coltivabili; chiedevamo all’agricoltore prima un campione corredato da analisi da laboratorio accreditato, poi lo sottoponevamo a nostre analisi indipendenti attraverso altri laboratori accreditati, poi ci arrivava la merce in decine di chili alla volta. Lo stoccavamo e pulivamo nel nostro magazzino e lo porzionavamo in confezioni da 1, 2, 3, 5 grammi. Questi barattoli con queste grammature erano gli unici prodotti della mia azienda che avevamo a catalogo, gli unici prodotti a entrare in contatto con il potenziale cliente finale. Il sommare tutte le nostre scorte di canapa agricola per rintracciare una qualche capacità drogante di un magazzino anziché del singolo prodotto che mettevamo in commercio mi sembra una forzatura abbastanza scorretta. E come controprova di quanto sia sbilenca questa modalità operativa vi è il fatto, e qui forse mi ripeto, che da quando ho subito il primo sequestro ad oggi, nessun altro collega grossista con magazzini simili al mio abbia subito un trattamento analogo nella propria città.

E poi, la primavera scorsa, quando valutavo la possibilità di rilasciare dichiarazioni spontanee in aula, guardando la rassegna stampa del giorno, vedo esplodere titoli su tutti i quotidiani nazionali dallo stesso tenore: “Il Governo vuole rendere illegale la cannabis light”, “Stop alla cannabis light”. Ma come, mi domando io, da semplice lettore dei quotidiani, se l’attuale governo sente la necessità di vietare ora la cannabis light, allora, prima, era legale! Era legale quando la procura a fine 2018 diede il via all’inchiesta, era legale nell’estate successiva quando mi sequestrarono oltre 6 quintali di canapa, era legale nel maggio 2020 quando mi cancellarono l’oggetto sociale, era legale quando una gup mi rinviò a giudizio, era legale nell’aula del dottor Gatto. Forse è legale pure adesso, l’aver venduto cannabis light fino al 2020…

L’ossessione di cercare droga anche dove droga non c’è, ha portato al sequestro e distruzione di tutto il mio magazzino, per un valore economico di oltre 2 milioni di euro, al sequestro del sito e addirittura delle caselle di posta elettronica, rendendomi oltretutto un po’ più complicato recuperare materiali per la mia difesa, ha portato al sequestro di prodotti che nulla c’entravano con l’inchiesta e che, al momento della restituzione, vuoi per la cattiva e negligente conservazione da parte della Guardia di Finanza in luoghi umidi e infestati dai topi, vuoi per la data di scadenza sopravvenuta, ho dovuto buttare con un danno economico ulteriore di altre decine di migliaia di euro, ha portato all’inibizione perpetua dell’attività e la cancellazione del suo oggetto sociale con conseguente chiusura definitiva dell’azienda, a una grande difficoltà economica e al peso psicologico, soprattutto, di 6 anni di calvario giudiziario. Un trattamento così vessatorio e la pervicace ricerca del mio annientamento, credo non abbia eguali nella, seppur breve, storia giudiziaria della cannabis light. Nessun collega, dettagliante o grossista, ha subito un trattamento equiparabile al mio.

Un altro aspetto che mi ha impressionato in questi anni è il giudizio negativo trapelato sia nelle pagine dell’inchiesta che nel mio esame in aula sul mio essere attivista politico. Come se fosse un disvalore, quindi, avere rapporti con esponenti politici, rappresentanti delle istituzioni, giornalisti della carta stampata o televisivi, avere una frizzante corrispondenza telefonica, intervenire con suggerimenti o analisi su faccende pubbliche, cercare di convincere della bontà di determinate istanze.

Rivendico il mio ruolo di attivista politico; rivendico la legittimità, senza pretenderne l’adesione, della mia agenda politica per i diritti civili, per la legalizzazione della cannabis, per i diritti dei detenuti, per i diritti riproduttivi, per il matrimonio egualitario. Ho fatto tesoro degli insegnamenti di Marco Pannella e di Marco Cappato, della prassi radicale per l’affermazione dei diritti degli individui; e nel percorso intrapreso per la cannabis light riecheggia, sicuramente nella forma, il percorso giudiziario intrapreso da Marco Cappato sul suicidio assistito e da Filomena Gallo per lo smantellamento della legge 40. Da quando avevo 16 anni mi occupo di queste cose e se Parma ha avuto il registro delle unioni civili prima di una legge nazionale in materia è anche merito mio; se un parmigiano oggi è un ottimo garante regionale per i diritti dei detenuti è perché scrissi la mozione per l’istituzione del garante comunale e convinsi la maggioranza di allora ad approvarla; se abbiamo un tavolo istituzionale contro l’omofobia da ormai 15 anni è grazie alla mobilitazione che organizzai allora e allo sciopero della fame a staffetta per spingerne la calendarizzazione; se Parma è oggi la città più sensibile dopo Bologna, nella regione più sensibile d’Italia, su temi come legalizzazione della cannabis e dell’eutanasia, suicidio assistito e nuova cittadinanza è anche grazie al lavoro di sensibilizzazione che ho svolto in questi anni in città.

Questa è la mia storia e non posso accettare che venga deformata per mera speculazione ideologica e processuale ed anche l’iniziativa sul fiore di canapa è parte di questa storia in cui ho agito sempre in buona fede, nella massima trasparenza e, ho finora creduto, nella massima legalità.

Però la cannabis light è una storia quasi soltanto mia, perché anche se la decisione che Lei dovrà assumere riguarderà soltanto me, gli effetti impatteranno necessariamente sulla vita di migliaia di persone, di colleghi, di ragazzi e ragazze che hanno investito le proprie risorse costruendo insieme a me questo settore imprenditoriale, agricolo e commerciale. Questa è la storia della cannabis light; resta a Lei, ora, stabilire se sia solamente una storia criminale.

Luca Marola

Parma, 30 gennaio 2025

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